La Calabria postunitaria raccontata da Vanni Clodomiro

Venerdì 02 Luglio 2021 12:02 di Redazione WebOggi.it

di VANNI CLODOMIRO

"Nel Sud d’Italia, le plebi rurali, che costituivano in pratica il tes­suto connettivo di grandissima parte della società, vivevano in condi­zioni del tutto precarie, sia dal punto di vista economico che sociale. L’analfabetismo, come è noto, si presentava in proporzioni gigante­sche, e ciò non favoriva certo lo sviluppo sociale, né tanto meno la circolazione delle idee, di cui i Borboni avevano sempre avuto il terrore. Denis Mack Smith, nella sua nota Storia d’Italia, dice che il mante­nimento di un asino costava più di quello di un uomo e che i Mille rimasero attoniti nell’incontrare pastori ricoperti di pelli di capra. Le strade erano pressoché inesistenti, il commercio scarso, la terra coltivata solo in parte. La malaria, il brigantaggio e la scarsezza d’acqua spingevano gli abitanti a concentrarsi in grossi agglomerati distanti decine di chilometri dalle zone di lavoro. Si pensi che in al­cuni luoghi del Mezzogiorno il denaro non era ancora necessario all’economia: in pratica, si pagava tutto  in natura.

Dal punto di vista sociale, una classe media non esisteva e la presenza dei grandi pro­prietari terrieri facilitava anche il perdurare di una mentalità sostan­zialmente anarchica di fronte alla legge, e feudale. E non si può nean­che dire che esistesse una tendenza politica, per così dire, di destra conservatrice. C’era solo il clero, che esercitava una forte influenza su una popolazione bigotta: si apprendeva sol­tanto in chiesa alcune scarse norme morali e politiche, e non si mandavano i figli a scuola.

Facciamo un rapidissimo cenno sulle tensioni politiche esistenti nel mondo contadino, nel momento in cui l’impresa di Garibaldi era sul punto di provocare i grandi mutamenti che seguirono. La rivolta del 1860 nell’Italia del Sud è di grande interesse per intendere l’atteggiamento dei contadini. La simultaneità di sommosse cittadine e di jacqueries provocò lo sfascio dell’amministrazione locale, costringendo la polizia borbonica, atterrita, a salvarsi con la fuga. Seguirono giorni di incendi, di furti di bestiame, di delitti. Garibaldi, che dapprima aveva tentato di guadagnarsi l’appoggio dei contadini, ben presto si rese conto della necessità piuttosto dell’appoggio dei proprietari terrieri, i quali erano gli unici ad avere un reale interesse a che la legge e l’ordine fossero conservati. E tale decisione fu certamente ragione non ultima del successo della spedizione dei Mille.

Per quanto riguarda la Calabria in particolare, i rapporti prefettizi rappresentano certo una concreta fonte per la conoscenza dei pro­blemi economici e sociali tipici delle tre province, sin dalla fine dell’Ottocento. Problema primario è da considerarsi l’incapacità della classe dirigente di tutelare gli interessi economici del Sud, a causa dell’inveterata consuetudine ad una gestione esclusivamente cliente­lare della cosa pubblica, cui neanche la Chiesa, alleatasi con i nobili, rimaneva estranea. In tale tipo di società, la figura del prefetto doveva rivestire un ruolo di particolare importanza, nel senso che aveva la possibilità di far sapere a Roma le cose così come stavano. Non di rado, infatti, Roma inviava degli ispettori a controllare l’andamento politico delle province; ma questi, giunti sul luogo, usufruivano del loro potere in perfetto accordo con i signorotti locali. Pertanto, il prefetto appariva come l’unica personalità capace di autonomia nei confronti della classe politica: infatti, i giudizi che essi inviavano a Roma sulle famiglie del luogo ed anche sugli ecclesiastici erano in genere molto severi.

Tali e consimili considerazioni devono ovviamente indurre a cre­dere, in sostanza, che una siffatta società non favoriva certamente una qualsiasi forma di sviluppo politico e culturale della regione, la quale fu giustamente ritenuta, insieme con la Basilicata, la più arre­trata di tutto il Mezzogiorno.

Ancora dopo l’Unità, nell’ultimo ventennio del XIX secolo, la so­cietà calabrese regrediva: un sistema sostanzialmente feudale perpe­tuava il privilegio di pochi, a danno, naturalmente, delle masse rurali. Tutto questo risulta ben chiaro dalle relazioni prefettizie delle tre province.

A Catanzaro, ad esempio, la situazione politica ufficiale prevedeva due “partiti politici”, uno di destra, moderato, l’altro di sinistra, pro­gressista; ma il prefetto del tempo, Movizzo, segnalò a Roma più di una volta come in realtà nessuno dei due fosse capace di tutelare gli interessi del popolo. Chiaramente, anche quei due “partiti” erano controllati dai notabili del luogo. D’altra parte, se è vero, come è, che anche in seno al Parlamento, all’epoca, i due partiti della Destra e della Sinistra si differenziavano, di fatto, ed erano variamente colorati soltanto a seconda delle memorie del passato e che l’avvento del tra­sformismo depretisiano non fece che sancire definitivamente la scomparsa dei due partiti storici, fondendoli in un unico programma liberale progressista, non si vede perché, proprio a Catanzaro, le due, per così dire, tendenze politiche avrebbero dovuto offrire connota­zioni nettamente differenziate. Nella città, vi fu solo un breve e fugace cenno di reazione, risultato del tutto infruttuoso, da parte delle sini­stre, che professavano teorie e princìpi antisociali o contrari all’ordine costituito. Alla sinistra appartenevano la classe intellettuale, peraltro in­capace di smuovere dall’interno la situazione, perché, in fondo, rimaneva soltanto gelosa custode della propria autonomia culturale. Nell’ultimo decennio del se­colo, poi, sembrava proprio che la tensione sociale, che molti crede­vano prossima al punto di rottura, fosse inevitabile. Tuttavia, furono quasi inutili i tentativi di ribellione dei movimenti operai.

La stampa — come, ad esempio, «Il Corriere Cala­brese», «Il Calabro», «Lo scudiscio» di Filadelfia, «La Luce» di Cro­tone, «La verità» di Monteleone — non fu neanche in grado di pro­porre le gravi situazioni interne, ma solo di avviare pure discussioni nell’angusto ed avido spazio delle questioni personali, poco curandosi dei veri e ben intensi interessi che pretendevano di propugnare, se non ed in quanto corrispondevano agli interessi ed alle posizioni dei singoli redattori e loro padroni. Sembra quindi piuttosto chiaro il quadro della situa­zione politica locale di quel periodo.

Diversa la funzione statale del prefetto nella provincia di Reggio. Infatti, mentre il Movizzo aveva denunciato a Roma l’esistenza di ben due “partiti politici”, a Reggio, Tamajo osservò subito che non ve ne era neppure uno, se non quello clericale, che richiede maggiore sorve­glianza. Era dunque la solita procedura clientelare che manteneva la consueta, assoluta preminenza. Neanche a Cosenza la situa­zione era migliore. Colà, infatti, non esistevano veri e propri partiti politici, ed il prefetto di quella città, Reichlin, denunciò solo un ten­tato sfogo d’ambizione da parte di qualche intellettuale. Non esisteva un vero sentimento o scopo politico: unici reali dominatori erano gli elementi clericali, che mantenevano stretti contatti con le persone più in vista del luogo. Lo stesso Reichlin si dimostrò benevolo nei confronti della Massoneria, che aveva anche presentato una propria lista alle elezioni amministrative del 1884. I socialisti, gli anarchici e i repubblicani venivano definiti spostati dalla classe dominante. Ma, mentre in città questi non avevano la possibilità di organizzare lotte contro il sistema, nella provincia, e soprattutto ad Altomonte, Zum­pano e Pedace, i socialisti, insieme con altri gruppi, riuscivano ad ostacolare le potenti famiglie del luogo.

Per quanto riguarda le amministrazioni comunali delle tre provin­ce, bisogna ricordare che quelle andavano avanti con grosse  diffi­coltà. Troppi erano gli interessi privati nella cosa pubblica, per i quali si strumentalizzava in maniera scoperta e arrogante perfino la riscossione delle imposte. Presso l’Archivio di Stato di Catanzaro giacciono nume­rosi documenti in proposito, che abbiamo esaminato e che in questa sede non proponiamo per ovvie ragioni di spazio.

Vogliamo ora appuntare lo sguardo sull’economia della provincia di Catanzaro durante il periodo di cui si tratta.

Nell’estremo scorcio dell’Ottocento, Catanzaro presentava un pano­rama economico-sociale attardato, caratteristico, del resto, di tutte le città di provincia meridionali. In uno studio ufficiale, rimasto un punto fisso di riferimento per molto tempo, le condizioni econo­miche della provincia erano definite penose da Filippo Marincola di San Floro, segretario della locale Camera di Commercio. Secondo il Marincola, la responsabilità di tali condizioni era da ricondurre alla diminuzione del prezzo del grano, date le ingenti importazioni dal continente americano. Tale fenomeno portava, come conseguenza inevitabile, l’impoverimento di una classe (che poi rappresentava la stragrande maggioranza delle popolazioni di tutto il Sud) costretta ad indebitarsi e a sottoporsi ad interessi elevatissimi, impegnando perfino i raccolti futuri. Ovviamente, visto che la situazione degli scambi non mutava, l’indebolimento economico era destinato a crescere, fino a determinare quasi sempre il fallimento totale e la conseguente per­dita del terreno da parte del piccolo contadino. Infatti, le espropria­zioni per morosità, dal 1885 al 1897, raggiunsero un numero im­pressionante: tutta la Calabria dovette sopportare migliaia di espro­priazioni, mentre, nel Nord, in Piemonte, in Lombardia, nel Veneto, se ne sopportavano soltanto poche decine.

Secondo  alcuni, tra i quali il Marincola, l’emigrazione poteva, a quel punto, costituire forse l’unica valvola di sicurezza capace di im­pedire che la situazione esplodesse. Egli era convinto che l’emigrazione potesse esercitare, nella provincia di Catanzaro, una benefica influenza per la conservazione dell’ordine, oltre che un ar­gine al trasbordare delle miserie mediante le rimesse degli emi­granti. Ma a noi, sinceramente, sembra difficile che quelle rimesse potessero veramente, in qualche modo, modificare e comun­que accelerare i ritmi di produzione e il quadro economico-sociale complessivo. Infatti, come è noto, l’emigrazione fu la risposta princi­pale, se non unica, alla grave crisi. Per cui, al contadino della provin­cia di Catanzaro non  rimaneva altra scelta, per sopravvivere a tale si­tuazione, se non quella.

Ad ogni modo, non crediamo che, anche in caso di effetti immedia­tamente positivi dell’emigrazione, l’economia se ne sarebbe concretamente avvantaggiata, mancando da noi, diremmo caratte­rialmente, quel particolare spirito imprenditoriale che sarebbe stato comunque necessario all’incremento dei ritmi produttivi. E poi, si consideri un po’ anche un altro aspetto, generalmente trascurato, quando si affronta l’esame di certi fenomeni. Vogliamo cioè dire che, qu­ando c’è emigrazione, in genere, si dice, chi se ne va sono i mi­gliori. E allora, questo si traduce forse, alla lunga, in una sorta di selezione in negativo, cioè in un vero e proprio danno anche dal punto di vista del miglioramento qualitativo, fisico e intellettuale, della popolazione.

Come si diceva, per quanto riguarda la particolare situazione della provincia di Catanzaro, si può parlare senz’altro di danno economico. Diciamo subito che uno dei caratteri distintivi dei nostri emigranti fu la loro composizione secondo la professione e l’attività di apparte­nenza. Tale composizione si riferisce, ovviamente, all’attività svolta al momento di abbando­nare la regione d’origine.

Nell’Annuario dell’emigrazione italiana del 1921 si può consultare la tabella delle cifre effettive degli emigranti dalla Calabria di età su­periore ai 15 anni, partiti negli anni 1876-1895, classificati per sesso e per professione. Risultano cifre molto elevate: in quegli anni emigrò una media di oltre 48 persone al giorno, per un totale complessivo di 353.475 unità, di cui 309.649 uomini e 43.856 donne.

Spostamenti più o meno frequenti da un’attività economica o pro­fessionale ad un’altra costituivano un fenomeno non raro nelle masse degli emigranti; essi, infatti, spinti a lasciare la regione per lo squili­brio esistente tra l’offerta e la domanda di lavoro nel settore in cui operavano, trovavano spesso nei territori di stranieri condizioni differenti da quelle immaginate, tali da rendere conveniente il pas­saggio ad altre attività economiche. Fino agli anni ’80, il fenomeno non aveva assunto dimensioni di rilievo. Infatti, l’inchiesta Jacini di­ceva dei calabresi che essi benché le condizioni dei salari e del vi­vere, in generale, fossero assai inferiori a quelle della Basilicata, o non si mossero punto o pochissimo. L’insufficienza del lavoro e la spe­ranza di poter all’estero ottenere maggiore mercede spinge ad emi­grare i contadini e braccianti di questa provincia.

In effetti, solo a metà degli anni ’80 l’emigrazione assunse dimen­sioni notevoli, crescendo via via fino all’imponente fuga che caratterizzò i primi anni del ’900.

D’altra parte, le tecniche agricole diffuse in Calabria ­– e quindi anche nella nostra provincia – erano, in effetti, tutt’altro che moderne: ad esempio, lo sfruttamento del terreno avveniva in ma­niera antieconomica. Mancavano infatti bestiame, idonei mezzi di fer­tilizzazione del suolo, case rurali ecc. La coltura intensiva non raggiungeva il 5 per cento dell’estensione totale della regione e le piccole aziende di proprietari coltivatori erano atomisticamente separate".

Come si vede, le condizioni dell’agricoltura meridionale in genere erano particolarmente difficili: ben poco in comune poteva avere un contadino della Calabria con un contadino piemontese; e questo per­ché le due metà del nostro Paese si trovavano a due li­velli assai diversi di civiltà.

La maggior parte dei nostri contadini viveva nello squallore, perseguitata dalla siccità, dalla malaria e dai terremoti. I Borboni erano stati tenaci sostenitori di un sistema feudale, colorito superfi­cialmente dallo sfarzo di una società cortigiana e corrotta. Avevano terrore della diffusione delle idee ed avevano cercato di mantenere i loro sudditi al di fuori delle rivoluzioni agricole e industriali dell’Europa settentrionale. Le strade erano poche o non esistevano addirittura ed era necessario il passaporto anche per un viaggio entro i confini dello Stato.

Parlando in particolare di Catanzaro, bisogna tenere presente che la sua economia era basata sull’industria della seta e sull’agricoltura. Ma, già nel periodo postunitario, l’industria serica era giunta al suo tramonto, mentre rimaneva come unica risorsa l’economia rurale. Non mancava però l’esercizio delle attività professionali e impiegatizie­­. Il resto – il commercio, il credito e la stessa industria se­rica – languiva. Insomma, ci sembra di poter affermare che Catan­zaro, all’epoca, era tra le città più povere d’Italia, se non la più povera. E ci sembra anche che la sua situazione non si discostasse troppo da quella della Calabria in generale, anche in relazione alle condizioni dell’agricoltura. Questa è per noi ragione valida per fare un rapido cenno sull’agricoltura calabrese. Non bisogna, innanzitutto, dimenti­care che ogni eventuale studio sull’agricoltura della Calabria deve te­ner conto del carattere non omogeneo della penisola calabrese, che presenta zone molto diversificate tra loro e giustifica, in parte, il nome al plurale, le Calabrie, dato sempre alla regione. La distribuzione della proprietà calabrese era concentrata nelle mani di poche famiglie, il cui scopo era quello di ingrandire sempre più il patrimonio, trascu­rando, invece, di migliorare le coltivazioni delle terre possedute. La piccola bor­ghesia, che altrove costituiva una delle maggiori forze sociali, era in Calabria una delle maggiori debolezze e il suo desiderio era solo quello di allontanarsi dalla campagna, in quanto colà non sussistevano più condizioni di vita sufficienti; gli stessi contratti agrari, diversi tra provincia e provincia e tra zone della stessa provincia, miravano soltanto allo sfruttamento dei contadini, i quali, anche per l’aumento notevole della natalità, erano costretti a trovare migliori condizioni di lavoro in altri luoghi. Queste condizioni caratterizzavano l’agricoltura calabrese all’indomani dell’Unità, dalla quale ci si aspettava un profondo cambiamento, che però non venne. Il brigantaggio prima, la crisi agraria e la rottura com­merciale con la Francia dopo, aggravarono notevolmente la situa­zione: e a farne le spese, in assenza di una necessaria e doverosa tra­sformazione colturale – che non venne fatta sopra tutto per la man­canza di capitali – furono i ceti rurali.

La classe lavoratrice, dunque, si aggirava in un dedalo di miserie da cui le era impossibile uscire: non trovava lavoro a giornata, perché il proprietario o l’affittuario non avevano più convenienza a far lavo­rare terreni – soprattutto quelli coltivati a cereali – che rendevano poco o nulla. Migliaia di famiglie languivano stremate dalla fame, per cui erano sempre più le popolazioni costrette a trovare altrove, e specialmente all’estero, i mezzi della loro sopravvivenza. E forse, in qualche caso, l’emigrazione fu veramente un’ancora di salvezza per una classe sociale giunta ormai al limite di sopportazione.

Sulla politica calabrese, bisogna dire che un certo sviluppo non si può negare, ad esempio, al movimento ope­raio, rappresentato, in un primo momento, dalle società di Mutuo Soccorso, che fecero la loro comparsa molti anni dopo l’unificazione dell’Italia, quando altrove ave­vano già avuto uno sviluppo notevole. Le stesse, però, vennero ben presto strumentalizzate dalla grande borghesia, che se ne servì a fini elettorali, trascurando i veri interessi per cui quelle erano sorte. La paura del socialismo, che timidamente faceva la sua comparsa anche nella regione, intimorì le classi borghesi, che cercarono con ogni mezzo di impedire che gli operai e i contadini venissero influenzati da idee progressiste. Neanche le leghe di resistenza, che agli inizi del Novecento presero il posto delle vecchie società di Mutuo Soccorso, trovarono le condizioni adatte ad un maggiore sviluppo. L’aspirazione suprema del contadino calabrese era quella di possedere un pezzo di terra, nella quale vedeva la soluzione del problema del pane quoti­diano; ed anche le agitazioni contadine che ebbero luogo nella re­gione furono dovute a tentativi isolati, in quanto la loro organizza­zione era inefficiente.

La mancanza di organizzatori fu infatti una delle cause più evidenti del mancato sviluppo contadino ed operaio in Calabria. Solo nelle zone in cui si svolse l’attività isolata di qualche personaggio (citiamo il caso di don Carlo De Cardona nel cosentino e di Enrico Mastracchi nel crotonese) si ebbe una presenza attiva del movimento contadino e il raggiungimento di alcune conquiste. Basta come esempio lo scio­pero indetto dalla Lega contadini di Crotone, aderente alla Camera del Lavoro socialista di Catanzaro, nel 1914, che ebbe pieno successo. Quello sciopero segnò una tappa significativa del movimento conta­dino calabrese, sia per il modo come fu condotto, sia anche per la ri­levante partecipazione dei contadini, oltre che per i risultati conse­guiti.

Altro aspetto di particolare interesse per l’economia calabrese dopo l’Unità è costituito dal grosso problema delle generali condi­zioni igienico-sanitarie. Ovviamente, non possiamo qui dilungarci su tale que­stione, ma ne diamo almeno una fugace indica­zione: si tratta delle malattie più diffuse nella regione, come la mala­ria, la tubercolosi, l’anchilostomiasi e il colera. Quest’ultimo, in effetti, fu una vera e propria calamità per la nostra re­gione, e in particolare per il crotonese, dove numerose navi prove­nienti da Ancona portavano il contagio. La grave situazione, determi­natasi intorno al 1865, si protrasse per oltre un ventennio e non si risolse fino a quando anche in Italia, sia pure con grave ritardo ri­spetto ad altri Paesi, non si registrò un decisivo intervento pubblico, nel 1888, rivolto al risanamento delle zone più malsane e alla ristrut­turazione degli impianti idrici e delle conduzioni fognarie. Ma tutto ciò in Calabria, per effetto delle pessime condizioni in cui le popolazioni vivevano, non si può dire che abbia ottenuto i successi sperati.

 


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