
Una notte al Pronto Soccorso del Pugliese in tempo di Covid.
Lunedì 23 Novembre 2020 21:00 di Adriana Guzzi
E' uno dei periodi peggiori per finire in Ospedale.
Si direbbe che questo vale per tutto il paese, considerata la pressione sanitaria in un momento in cui il Covid 19 è tornato per una seconda ondata di una pandemia che ha messo in ginocchio l'Italia.
In termini economici soprattutto, ma in termini sanitari in egual misura. E la Calabria fa audience per molti degli aspetti che non vorremmo vedere e udire mai, ma che fa bene affrontare, prima o poi.
La sanità ci piove addosso con un ritorno di inefficenza e approssimazione. La sfiducia aumenta e la paura la segue, perchè Covid o no, la malattia non aspetta.
E la necessità di cure non potrà in ogni caso ripiegare su un "andrà tutto bene".
L'urgenza di cure è quella che ogni calabrese e forse ogni italiano scongiura nelle sue preghiere nelle ore in cui ogni cosa scarseggia.
Velocità, chiarezza, umanità.
Non era quindi una notte adatta per finire in Ospedale, sulla carta.
Purtroppo ci sono cose che della carta se ne fregano e quando fai il bilancio dei rischi, ti rendi conto che si, è urgente farti soccorrere.
Arrivo in Pronto Soccorso a Catanzaro quasi a cavallo della mezzanotte, e vi assicuro che niente meno di un'urgenza mi ci avrebbe costretta.
L'atrio è silenzioso, qualche operatore sanitario a vista ma nessun paziente, o parente.
Arrivo in ricezione visibilmente sofferente, spiego in breve e anche un pò agitata la problematica. Faccio presente, con tanto di impazienza, che ho bisogno di intervento impellente perchè potrebbe essere in corso qualcosa di serio.
L'operatore mi ascolta, misura la temperatura, scrive.
"Perfavore non mi metta un codice con lunga attesa, ho una figlia a casa da sistemare qualora mi ricoverassero"
Alza gli occhi, io mi preparo al rimbecco. Sto male e niente potrebbe esser peggio. Sono pronta a far valere le mie ragioni.
"Signora, entri". Con mia grande sorpresa.
Attesa il tempo della registrazione quindi, entrata per il primo screening in circa 3 minuti. Mi portano in una sala per il tampone rapido, prima che abbia qualsiasi contatto. Negativo. Seconda sala, le prime informazioni e si rendono plausibile che potrei avere bisogno del ricovero: quindi secondo tampone, quello molecolare.
Avrei chiesto di farmi qualcosa per il dolore appena finite le domande, Ecg e prelievi. Ma la Dottoressa intima la priorità all'operatore barricato dietro una tuta: " Prima Toradol per il dolore, che sta soffrendo".
Sono pochi i secondi e già comincio a respirare, e dunque a guardarmi intorno.
Sono sola in Pronto Soccorso, in piena notte. E con me altre persone, ugualmente sole, ugualmente sofferenti, ugualmente con il cellulare come unico conforto.
Appena in grado vengo indirizzata ai primi esami diagnostici. Chiedo come arrivarci, ma fuori c'è un'infermiera ad attendermi per accompagnarmi, con un sorriso dagli occhi scuri mi offre la sedia a rotelle.
"Ce la faccio" dico, come se mi dessero il premio per farcela ogni volta.
" Si faccia portare sulla sedia, perfavore". Niente di fatto, ma conta che lei ci abbia provato.
Mi accompagna dove serve e dove trovo altri operatori, difficile dire se fossero medici o infermieri perchè anche loro barricati dai dispositivi di sicurezza.
Il dolore comincia a diminuire, altre domande..altri esami, altra visita.
Due stanze comunicanti con mansioni diverse a lavoro e il tentativo di farmi sorridere, cosa che avviene e che improvvisamente cambia l'aria per tutti.
Dietro le tute e le mascherine immaginiamo lavori diversi. Per un attimo, per distrarmi dal mio malessere, si inventano lavori secondari e di fantasia... di fatto è notte e loro stanno decidendo il da farsi e io so che potrebbe non piacermi.
Ma una cosa comincia ad essermi chiara : Non sono sola.
Giuseppe, (detto Pino) Annamaria, Barbara e Pierluigi sono con me. E io non so quasi che faccia abbiano, ma loro ci sono e mi circondano. I loro nomi di battesimo dati senza titolo, umanizzano quelle coperture dovute per protezione di tutti. Avvicinano chi, per prassi, deve rispettare la distanza sociale ma non quella civile.
"Dobbiamo aspettare, dipende dagli esami"
"Dobbiamo aspettare" che di solito si traduce nella mia testa in ore di attesa snervante.
Avviso casa su una sedia della sala d'attesa. Uno dei ragazzi mi guarda passando e mi offre di stendermi su una barella. Accetto, stavolta. Tempo di stendermi ne passa un altro: " Tutto ok?".
I dolori cominciano a rifarsi lievemente vivi, credo si veda dalle mie espressioni quando l'operatore in tuta bianca ( il più barricato di tutti, ma rimane impressa la tuta bianca) si va vivo per controllare.
Riappare silenziosamente e con un altro pò di antidolorifico : " Cosi hai un pò di sollievo e riposi finchè arrivano i risultati".
E cosi è. Il dolore decelera e io provo a riposare, giusto il tempo che altre due infermiere di turno, passando vicine si offrano di coprirmi e spengono le luci più vicine a me per darmi ristoro.
Senza dolore, finalmente, ricado nell'osservazione, deformazione più personale che professionale.
Ospedale calabrese in tempo di pandemia. Ospedale di un Capoluogo martoriato più del solito, Pronto Soccorso.
"Sarà il poco afflusso", mi dico. Forse.
Mi spiace quasi dover ammettere che le mie aspettative sono state deluse.
Mi spiace quasi non poter confermare che finire in Ospedale per necessità in questo periodo è peggio che andar di notte.
Mi spiace, ma neanche tanto.
Aggiungo, a scanso di equivoci che non conoscevo nessuna delle persone che è entrata in contatto con me. E che nessuna poteva sapere ne avrei scritto.
Ancora, sarebbe valsa più della parola " soccorso" per me oggi. Non avrei tardato a fare sentire la mia voce, in ogni caso, in questo momento.
Ma la mia voce, in un periodo in cui finiamo alla ribalta per le incompetenze di ogni ordine e grado, DEVE trasferire la cronaca di una mia diretta esperienza nelPronto Soccorso del Pugliese di Catanzaro.
E deve anche dire a parole scandite che è successo quello che mi sarei aspettata in altre ben più blasonate postazioni sanitarie. Lo dico con cognizione di causa, sia rispetto alle strutture sia rispetto al trattamento.
Sono seguita nella mia vita da medici altamente competenti che per deontologia e affetto non lasciano nulla al caso.
Quindi so perfettamente cosa fosse necessario fare, perchè da loro guidata e assistita. E so perfettamente che è stato fatto quello che serviva in termini di intervento e cure. In tempi accettabili e sicuri.
Al Pugliese, stanotte, io sono stata soccorsa.
Sulla sfera medica, da protocollo.
Sulla sfera umana, se servisse dare una recensione in tempo di Covid, Catanzaro si piazza tra i posti in cui in un momento di urgenza e di paura ci si dovrebbe trovare. E io mi ci sono trovata.
Due ore e mezzo e due tamponi dopo (NEGATIVI n.d.r) la Dottoressa Zaccone, di cui mi sento di fare il nome ( da referto) per dovere di cronaca, torna a dirmi che ho scampato il ricovero.
Un sorriso anche alle tre di notte, qualche consiglio e un " Se senti il dolore aumentare, torna a qualsiasi ora" mi ricordano che tutto è può essere vero ma anche il contrario.
E anche se spero di non doverci tornare, ieri notte mi sono addormentata con un pizzico di smarrimento in meno. Ora so che nonostante di notizie ci bombardino in senso contrario, competenza e umanità sono di turno a Catanzaro.
Grazie ad Annamaria, Barbara, Giuseppe ( Pino delle pietre preziose) e Pierluigi per l'umana allegria.
Grazie a chi mi ha coperto e spento la luce. Alla Dottoressa morbida e materna che mi ha coccolata.
E grazie al ragazzo in tuta bianca che ha avuto l'onere degli aghi e del tampone con una paziente poco collaborativa, mantenendo la mano delicata e la presenza ferma. E' l'unico di cui non so il nome, ma che ricordo più spesso vicino.
Soprattutto grazie al mio amore di medico che mi sopporta senza orario, studio o parcella.
A voi che ci seguite a casa sommersi dipaure va l' abbraccio più grande.
Non avremo mezzi, soldi e strumenti idonei a una sanità eccellente (come ogni sanità dovrebbe essere) ma abbiamo gente che crede ancora nel suo lavoro, e forse può ancora fare la differenza.